Una scheggia
impazzita.
Tirocinio in un Centro di Salute
Mentale: per lo più si tratta di
pazienti che hanno ricevuto diagnosi di psicosi, dove il trattamento
farmacologico e tutto quello che ci ruota intorno ha un posto privilegiato.
La terminologia usata per la
stanza dove si svolgono i colloqui ne è
già una testimonianza: l'ambulatorio; l'etimologia indicava
originariamente il medico che si recava dalla persona sofferente,
"ambulando", portando sì
medicine ma anche e soprattutto conforto attraverso una "parola
buona". Molto è cambiato da
allora.
Nella nostra modernità la "parola" è considerata, al contrario,
cosa di poco conto, schiacciata com'è
dalla presenza troneggiante del farmaco, sovrano del nuovo regno del 21º secolo, quello della
scienza, sposa devota di un capitalismo despote e potente.
Ne deriva una pratica clinica che
sempre più s'indirizza verso
una medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence-based medicine) ed è
così che l'individuo con il suo
sintomo singolare perdono
quasi del tutto rilevanza, refrattari come sono a qualsiasi indice di
significatività o criterio di
standardizzazione.
La proporzione degli operatori tra
medici/paramedici e psicologi racconta lo stesso fenomeno: tra il farmaco e la
parola, il primo vince abbondantemente sulla seconda.
E ogni oggetto di questo ambiente
ce ne parla: basta sbirciare dentro uno di questi "ambulatori", dove
ammiccano ovunque calendari, block notes, penne, postit con i logo e i nomi
delle maggiori case farmaceutiche.
Qualche volta, però, può accadere qualcosa di imprevisto tra il paziente e
chi l'ascolta: una scheggia impazzita che, nonostante la scrivania ingombra di
gadget e campioni di costosi farmaci, fa sì
che possa sorgere un ponte tra i due, seppur arduo da percorrere.
E il sogno continua e conferma
questo legame con un pensiero: il suo autore sente che ce la farà ad arrivare dall'altra parte, senza cadere,
perché qualcosa sta finalmente
cambiando.
* allieva Istituto Freudiano di Roma