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giovedì 27 ottobre 2011

Omaggio ad Andrea Zanzotto



« Mancamento radiale » Omaggio ad Andrea Zanzotto.

Antonio Di Ciaccia



Ho intitolato così questa rubrica : è un omaggio ad Andrea Zanzotto, il grande poeta italiano scomparso pochi giorni fa. Il « mancamento radiale », tratto dalla poesia La perfezione della neve (1968), è la definizione data da Stefano Agosti all’esperienza del Poeta di Pieve di Soligo, « che vede il Soggetto collocato nel punto centrale di una sfasatura che coinvolge (e sconvolge) l’assetto del mondo ». Ma « mancamento » è il termine con cui Zanzotto stesso definisce l’opera che Lacan ha prodotto, poiché egli ha insediato « un mancamento nel posto dell’ego, introducendo consistenze da dantesco Cielo della Luna nel punto focale dei paradisi dell’io (Io ?) », come scrive nel breve saggio del 1979 « Nei paraggi di Lacan ».

L’io ? Che cos’è l’io ? Dice in una poesia di Vocativo (1957) :


– Io – in tremiti continui, – io – disperso

e presente : mai giunge

l’ora tua,

mai suona il cielo del tuo vero nascere.


Vocativo (1957): già fin da subito Stefano Agosti aveva constatato « sintomatiche quanto straordinarie coincidenze e magari anticipazioni » con il detto lacaniano. Ma che cosa spinge il Poeta « a sfogliare con ansia », un numero de LaPsychanalyse scoperto su un tavolo ? Era il momento in cui, com’egli dice, « dovevo » frequentare degli psichiatri, i quali non erano proprio « ortodossi » se gli avevano sussurrato il nome ancora sconosciuto di Lacan. Il mancamento dell’io, il mancamento del mondo e di tutto il tessuto che chiamiamo realtà lo aveva indotto a distogliersi dal tentativo di reperire dei significati autentici da rinvenire all’interno dei segni. Trova, invece, il suo punto di riferimento, nuovo, inatteso, sconvolgente, nel significante.

In Beltà (1968), quando ormai la sua sfiducia nei significati è diventata totale, si rivela per lui fecondo solo l’appliglio al significante. Ormai è sul significante che egli fonderà la sua esperienza di soggetto, è tramite il significante che gli è possibile far affiorare qualche cosa che, profondamente, lo lavora e lo tritura. Così Beltà (1968) e le opere che seguono passano dal significante sganciato dal significato per ricomporsi in balbettio, in sillabazione, nell’uso dell’italiano parlato per finire al dialetto, al neologismo, alla lingua privata, alla lingua inventata, alla lingua infante. « Ascoltarlo era ascoltare, allo stesso tempo, il più colto, raffinato, lavorato, inventato dei linguaggi, un balbettio quasi infantile, il suono delle parole nel loro germinare nel nostro stesso corpo, prima di ogni significato », scrive Massimo Cacciari su la Repubblica (19 ottobre 2011). E Franco Marcoaldi, sempre sul medesimo quotidiano, ricorda « quanto i balbettii, le onomatopee, i grumi sillabici, i silenzi senza sobcco di una ‘psiche ustionata’ finiscano per dar luogo a un proliferare di voci, a una deflagrazione della materia linguistica e dunque a uno ‘zampillio segnico’ irrefrenabile ». Tutto ciò si configura come una lingua incomparabile « suscettibile di registrare, da un punto infinitamente regredito della parola, il mondo e il vissuto, il falso e l’autentico, il giocoso e il tragico, come non si era mai verificato – per una tale ampiezza di registri e di temi – nella storia della lingua e della letteratura italiana », per dirla ancora con Agosti.

Beltà segue di poco la pubblicazione degli Ecrits di Lacan, di cui Zanzotto a Milano aveva assistito a una conferenza tenuta in quel tempo. E Lacan ritorna citato direttamente, qualche anno dopo, nel bel mezzo di La Pasqua a Pieve di Soligo (1973), dove in una nenia ironica, puntellata come le Lamentazioni del profeta Geremia, il Poeta interrompe la lingua italiana per passare al francese parafrasando Francis Jammes e terminare poi con un desiderio detto alla tedesca :


« […] oui, je veux savoir ce qu’en pense l’école freudienne de Paris,

peut-être par là arriverai-je à étouffer mes soucis ;


je déborderais comme ce halo, comme cette herbe, du grabat

où mon Begehren m’a cloué et d’Œdipe le stérile combat ».


Tuttavia, scrive Zanzotto, « il debito e il confronto con Lacan era destinato a crescere, ad allargarsi », poiché nel corteo « trionfale » della psicoanalisi, laddove Freud si installava o era installato « quale Imperator vincitore, Lacan sembrava volersi inserire sempre più con il ruolo del rosso folletto che contraffaceva le mosse del Cesare, del Padrone, rivelandone l’intima figura […] Colui che agli inizi poteva anche aver assunto una fredda faccia da doctor vampirico, cangiava e roteava come un jolly, buttando sù con il suo verbeggiare un’infinità di trucioli, ancora e sempre più importanti di tutto il resto, e tanto più pungenti di ‘in-verità-vi-dico’ quanto più deteriorati da rumori di fondo e da equivoci ».

E’ il fluttuare de lalingua che affascina Zanzotto, che ritrova in Lacan quella che egli chiama « matrità », la lingua che è la madre terra, l’idioma di fondo, quella di cui lui e Lacan si servono a proprio uso, spezzettando e contraffacendo le lingue ormai morte. « Queste microlettere – scrive ancora –, queste inezie, queste tessere di un saccheggiato mosaico o puzzle, sono come talismani capaci di orientare in certe proibite Holzwege della poesia, quando già essi non la costituiscano ».

Lalingua : che ormai è là solo per dire il livello zero in cui si dice il residuo, il resto, il detrito umano o – per dirla con una sua poesia molto più tarda di Conglomerati (2009) dal titolo « la muffa » –, quell’insignificate muffetta che ha attecchito sulla terra e in cui si riduce l’umanità stessa. E, in una nota, si domanda sornione : « E il mondo dei concetti come fa a convivere con questa muffa, anzi ad essere secreto dalla muffa stessa ? ».

E che cos’è questo secreto ? se non la poesia stessa, quella che il Poeta sente e fiuta in Lacan. Forse è questo che gli permette di scrivere, alla fine del testo su Lacan : « Credo che convenga comunque sperare nella sua non speranza ».



martedì 25 ottobre 2011

Risonanze del Forum della SLP a Milano 2011

LA CRISI: DALL’ANGOSCIA AL DESIDERIO.

Francesca Carmignani


“L’unico affetto che non inganna” così Lacan definisce l’angoscia, un’angoscia creatrice che produce un oggetto a causa di desiderio e non solo plus godere che funziona come tappo nel fantasma. In apertura del Forum SLP, La psicoanalisi di fronte alle angosce della civiltà: crisi economica, politica e spirituale, tenutosi a Milano il 22 Ottobre 2011, la Presidente Paola Francesconi ci parla infatti di un plus di memoria, i giga salgono vertiginosamente, di un plus di denaro, spinta all’accumulazione, nome veritiero di molto di quanto viene travestito nella mascherata dei risparmiatori. “Il denaro è un significante senza significazione che uccide tutte le significazioni. Quando uno si dedica ai soldi la verità perde senso, non ci si vede che una patacca.” Così si esprime Jacques-Alain Miller in un’intervista rilasciata al quotidiano Marianne nell’anno 2008 sul tema della crisi finanziaria. Ma, Francesconi ci rammenta, sulla scia di Miller che c’è una buona crisi che ha da interessare l’analista quella data dalla divisione soggettiva umanizzante e costituente. E divisione c’è, se c’è interrogativo. Dunque è sulla via tracciata dalle questioni che mi hanno elicitato i vari interventi ascoltati al Forum scegliendo non a caso di appuntarmi principalmente su quelli dei partecipanti non analisti (lì rappresentanti del sociale), che scriverò queste mie righe dedicate all’evento.

La sociologa della cultura Carmen Leccardi nella sua relazione afferma che non vi sono più le istituzioni sociali a sorreggere il senso. È forse traducibile con Lacan e Miller dicendo che molti sembianti vacillano o sono già caduti? Dunque vi è “una crisi di senso” e dice Leccardi un conseguente “eccesso di senso comune, quando non ci sarebbe niente da dare per scontato”. Non è forse questo che facciamo con i significanti portati quotidianamente in seduta dagli analizzanti? Metterli in questione, non dandoli per già compresi?

Rilevando poi un altro punto che illumina la crisi del simbolico, la sociologa tratta la questione del tempo e fa una proposta: riferendoci ai “tempi dei corpi” possiamo fermare l’accelerazione che viene impressa al tempo nell’epoca attuale. Mi chiedo: è qualcosa che consona con il provare a bloccare il non funzionamento dell’oggetto a, appunto pezzo di corpo analogamente a quanto accade nell’accelerazione maniacale? Ella sostiene che la donna nel suo rapporto privilegiato con l’alterità evidenziato anche da Giuliana Kantzà, tramite Lacan, come esilio strutturale del femminile, possa ben orientare la produzione etica di un cambiamento. Pierre-Gilles Guégen commenta che il tempo delle donne e tempo degli uomini sono differenti perché non vivono la pulsione allo stesso modo e lo si coglie, a mio parere, come definizione di “genere” secondo l’orientamento di Lacan.

Leccardi puntualizza che non ci sono solo tempi lineari ma, anche cicli. Tale osservazione si riallaccia alla modalità di funzionamento temporale del dispositivo del Cecli (declinazione italiana del CPCT) in caso di nevrosi. Un ciclo sì, ma effettuato soltanto secondo il tempo logico del soggetto, ciclo come la pulsione che fa il giro dell’oggetto, ma dove s’introduce la discontinuità, quella della “crisi amica” dell’inconscio che può così mettersi al lavoro sull’enigma.

Infatti, Leccardi sostiene che la crisi del senso è inversamente proporzionale alla crescita della responsabilità soggettiva. Ed effettivamente si può constatare che è così anche in analisi!

Successivamente, Monsignor Agostino Marchetto, segretario sino al 2010 del Pontificio Consiglio dei migranti, evidenzia il bisogno di senso proprio all’essere umano per sostenersi e sentire il proprio radicamento. In effetti, questo ci rimanda al fatto che il bisogno di significanti immaginari, di sembianti in posizione d’agente è necessario all’essere parlante per stare in un discorso e dunque nel legame sociale. Se l’immaginario è il senso ed anche parte costitutiva del sembiante, l’annodamento debole o mancante con il registro immaginario (là dove si situano io ideale, il piccolo altro…) ha come conseguenza un’erranza soggettiva declinata differentemente a seconda delle strutture in gioco, dal narcisismo debole nella nevrosi allo scollegamento progressivo dal legame nella psicosi, (si vedano su questo punto i bei casi portati al Forum da Nicola Purgato, Laura Rizzo e Pasquale Indulgenza). Direi che Monsignor Marchetto a suo modo ci porta anch’egli un esempio clinico, quello delle mamme migranti, grazie a cui si apre alla questione femminile, altro tema portante del Forum. Mi domando: nella madre non c’è forse in gioco una migrazione senza fine tra la madre e la donna e viceversa tra la donna e la madre? Le madri migranti nel trasmettere valori ai loro figli, ci ricorda Marchetto, sono poste di fronte alla contraddizioni tra la propria tradizione e la cultura del paese che le ospita. Mi chiedo: è qui visibile ancora una volta una ulteriore variazione sul tema della difficoltà contemporanea ad avere a che fare con la divisione soggettiva?

Marchetto consiglia di parlare non tanto di multiculturalismo quanto interculturalismo per far intravedere l’imprescindibilità del legame tra i popoli. Ancora mi interrogo: non si tratta anche d’intraculturalismo , inteso come un nome dell’estimità, di quel punto di godimento né dentro, né fuori che fonda ogni soggetto?

Nel suo intervento, Massimo Amato, professore di storia della moneta, paragona l’attuale crisi economica al potlach, ma, rilevando che nel secondo “la ricchezza viene bruciata secondo il senso della rinuncia, vi è una ripetizione del rinunciare per accedere a ciò che resta”. Sono parole che risuonano con il titolo della sessione che poco prima aveva ospitato le testimonianze degli AE, Paola Bolgiani e Sergio Caretto, “Che fare con ciò che resta di un’analisi”. Nel potlach c’è inappropriabilità, ma, in seno all’attività economica, ovvero allo scambio simbolico. Rispetto alla logica di abbattimento del rischio, gli insolventi, i cosiddetti subprime, fanno guadagnare perché si emettono nuovi titoli. Così si rilancia (o si ripete piuttosto?) procastinando il pagamento del debito. Per Amato i mercati delirando volevano vincere il tempo, mostrando la loro posizione di padronanza. Il professore puntualizza che non esiste un vuoto prodotto dalla crisi. Piuttosto il vuoto c’è ab initio , da sempre. Infatti, diciamo noi, che per Lacan l’Altro è barrato, mancante sempre di un significante. Il vuoto, quale mancanza prodotta dalla castrazione diviene così il buco attorno a cui si costituisce il soggetto. La libertà però, precisa Amato, non è assenza di schiavitù, poiché, strutturalmente, non ci si libera dell’essere in debito, dell’essere in colpa, dell’essere affetti dalla mancanza. Amato ci ricorda che occorre un debito dal principio perché sia possibile l’economia. Ebbene, ci vuole la perdita imposta all’essere dall’ingresso nel linguaggio e nel discorso, un debito insolvibile, affinché ci sia soggettivazione e ingresso nello scambio simbolico.

La proposta di Amato è che economia e poesia (quest’ultima situata dal lato del Non tutto) s’intreccino, proprio perché non ogni cosa è matematizzabile o calcolabile o rientra nella logica fallica, diremmo con Lacan.

Alla logica femminile contrapposta a quella fallica dell’omologazione (identificazione orizzontale? chiede Guégen), rinvia il testo di Rosa Elena Manzetti dove si tratta del coraggio femminile, né eroismo, né collera, bensì, versione pensabile della solitudine, non che si accetta, ma che “si fa, nell’atto di coraggio”.

Ascoltando poi Massimo Termini, si nota come nella crisi, il dettaglio in seduta, è ciò che è davvero prezioso, è ciò su cui investire nell’analisi affinché, direi, il lavoro che per un soggetto nel sociale è perduto, precario o insoddisfacente si tramuti nel lavoro sì, ma quello di transfert, da parte dello stesso soggetto che prima si limitava a svalutarsi nel lamento sterile, deresponsabilizzandosi. C’è dunque da far emergere la domanda inconscia del soggetto rispetto ad un reale che altrimenti immobilizza. Crisi, etimologicamente, non sta forse per scelta?

Massimo Amato conclude contrappuntando che il paradosso economico si colloca in una liquidità trattenuta, al contrario di una res publica intesa come res nullius, come “niente che fa spazio”. E per noi , orientati da Lacan, l’oggetto a, causa di desiderio, al di là delle sue varie manifestazioni, che cos’è se non il niente?














lunedì 24 ottobre 2011

Scomparsa di Andrea Zanzotto

La recente scomparsa di Andrea Zanzotto, ci fa ritrovare il grande poeta. Sul quotidiano L'Unità del 18 ottobre 2011 leggiamo: «Che cosa si capisce della vita dopo 90 anni? Niente». Così il poeta aveva risposto in un'intervista al Tg3 del Veneto il 10 ottobre scorso, giorno del 90imo compleanno, che aveva trascorso nella sua casa di Pieve di Soligo, sulle colline trevigiane. «Cosa vuole che si capisca in 90 anni? - aveva aggiunto - Per dire parole che valgano la pena bisognerebbe almeno averne 900 di anni...». Proponiamo qui un articolo di Antonio Di Ciaccia dedicato al grande poeta, pubblicato da Ornicar Digital *. (Laura Rizzo)


Andrea Zanzotto o il "mancamento" radiale.

Antonio Di Ciaccia

Il "mancamento" radiale è la definizione che Zanzotto dà della propria esperienza poetica "che vede il Soggetto — cito il critico Stefano Agosti — collocato nel punto centrale di una sfasatura che coinvolge (e sconvolge) l'assetto del mondo" (1). Punto drammatico ma straordinariamente fecondo.

Perché Zanzotto? Occupandomi quest'anno del Seminario V di Lacan Les formations de l'inconscient, mi sono più volte domandato quale autore italiano avrebbe potuto illustrare quanto Lacan avanza nei primi sette capitoli del suo Seminario. Come sapete, Lacan fa riferimento a diversi autori e ad autori di diversa collocazione nel campo letterario con un intento preciso: quello di rendere conto della struttura linguistica dell'inconscio freudiano. Le formazioni dell'inconscio si situano esattamente dove si colloca il Witz, il motto di spirito. Come si noterà Lacan non fa riferimento, almeno in questi capitoli del Seminario V, ad autori italiani.

Devo ad alcuni colleghi — che ringrazio — la segnalazione di diversi autori, tra i quali ho scelto di interessarmi più particolarmente all'opera di Andrea Zanzotto. Forse perché il suo nome mi evocava l'unico testo in prosa — almeno a mia conoscenza — in cui Zanzotto parla di Lacan. Forse anche perché ritrovavo in Zanzotto le tracce di una duplice problematica che mi aveva colpito nella lettura dei primi sette capitoli del Seminario Les formations de l'inconscient.

In effetti, in Lacan abbiamo in questi capitoli del Seminario V una prima problematica che è imperneata intorno alla dimostrazione che l'inconscio freudiano è strutturato come un linguaggio. Tale dimostrazione Lacan la fa a uso di Freud. La riprende da Freud, la chiarifica, la illustra e la rilancia. E la rilancia nel mostrare nella catena significante l'articolazione tra la metafora e la metonimia. "(…) la possibilità stessa del gioco metaforico si fonda sull'esistenza da qualcosa da sostituire. Quello che è alla base è la catena significante, in quanto principio di combinazione e luogo della metonimia" (2).

Poi però abbiamo in questi primi capitoli del Seminario V una seconda problematica, direi più tipicamente lacaniana e che riguarda la questione del soggetto e del suo Altro. Lacan precisa, riportandolo sul grafo, la posizione dell'io. Ma l'io non è il soggetto. E mentre Lacan precisa sul grafo il posto dell'io, posto correlativo al posto dell'oggetto metonimico, il soggetto, il soggetto dell'inconscio, invece Lacan lo situa in tutto il grafo. "Il soggetto — dice — è tutto il sistema, e forse qualcosa che si conclude in questo sistema" (3).

Per quanto riguarda l'Altro, anche qui Lacan lo moltiplica precisando che una cosa è l'altro in quanto simile, altro ancora è l'Altro in quanto è l'istanza che autentifica per esempio il motto di spirito, altro ancora è l'Altro come reale per poi arrivare a questa affermazione: "Eccoci dunque in posizione di dire che, lungi che il soggetto di fronte a noi debba essere un vivente reale, questo Altro è essenzialmente un luogo simbolico" (4). E Lacan nella pagina successiva qualifica questo Altro come "sopra-individuale", come "avente un carattere singolarmente immortale" e soprattutto — come sottolinea J.A. Miller nel suo Seminario tenuto a Barcellona su Les formations de l'inconscient (5) — come avente "un carattere che possiamo chiamare astratto" (6).

Queste due problematiche corrispondono dunque a due preoccupazioni di Lacan, la prima circa la dimostrazione della struttura linguistica dell'inconscio freudiano e la seconda circa la posizione del soggetto, del soggetto dell'inconscio, e del grande Altro.

Ora, che cosa troviamo nel percorso poetico di Andrea Zanzotto? Ritroviamo certo quello che Michel David, nel suo volume La psicoanalisi nella cultura italiana (7), afferma essere una certa corrispondenza tra l'opera di Zanzotto e l'insegnamento di Lacan: era come se nel poeta Zanzotto si fosse sviluppato un inconsapevole lacanismo. Da parte sua anche il critico Stefano Agosti constata nell'opera zanzottiana quelle che chiama "sintomatiche quanto straordinarie coincidenze e magari anticipazioni" (8) rispetto all'insegnamento di Lacan.

Ma più particolarmente ritroviamo una certa corrispondenza con queste due problematiche, una che riguarda l'evoluzione del percorso poetico di Zanzotto e l'altra che riguarda la propria soggettività e la questione dell'Altro, anche se la seconda — quella che concerne il soggetto e l'Altro — resta in Zanzotto senza soluzione, resta come la sua personale angosciante problematica soggettiva.

Stefano Agosti situa l'irrimediabile incrinatura del suolo su cui si basa la stratificazione letteraria di Zanzotto portando il poeta a questa disgregazione della realtà e dell'io, rispetto a due fatti, riconducibili, a mio avviso, al secondo. Il primo fatto è la nozione di arbitrarietà del segno linguistico postulata da de Saussure, e il secondo fatto è il concetto di significante introdotto da Lacan nella pratica psicoanalitica (9).

In un primo tempo del percorso poetico di Zanzotto la sua ricerca era orientata verso un tentativo di reperire dei significati autentici da rinvenire all'interno dei segni. Ma a un certo punto — esattamente con la raccolta "La Beltà" — cito Agosti — "il rapporto significante-significato si rompe. Il significante non è più collegato a un significato, o a molteplici significati possibili, ma si istituisce esso stesso come depositario e produttore di senso" (10).

In altri termini, in Zanzotto abbiamo un percorso poetico che procede tramite un progressivo distacco dal senso, una poesia orientata non più dalla relazione significante-significato, ma una poesia che si situa in diretta relazione con il significante, una poesia che è sempre più nettamente orientata verso un'utilizzazione della lingua in cui domina l'uso dello scivolamento metonimico.

"E poi astrazioni astrificazioni formulazione d'astri
assideramento, attraverso sidera et coelos
assideramenti assimilazioni —" (11).

E' questo sempre più generalizzato uso della metonimia che sconvolge il lettore. Ma lo sconvolge non solo perché sembra mancargli una pur qualche allusione su cui di solito si fonda la poesia, ma lo sconvolge perché sorge in primo piano ciò che rende poesia la poesia: si tratta della relazione assolutamente essenziale che la poesia ha con il significante. Lacan lo ricorda a proposito della poesia di Mallarmé: una poesia si definisce unicamente "nei suoi rapporti con il significante" (12).

Ora però, quello che è predominante in Zanzotto è il fatto che questo scivolamento metonimico non produce gioco, moto scherzoso, divertimento spassoso, motto di spirito. Poiché in primo piano appare l'effetto che è quello di disgregazione della lingua. Ma la lingua, disgregandosi, correlativamente disgrega la realtà. E più particolarmente disgrega quel punto focale dell'esistenza che è il proprio io. L'io del poeta.

"— Io — in tremiti continui, — io — disperso
e presente: mai giunge
l'ora tua
mai suona il cielo del tuo vero nascere" (13).

La poesia non celebra il significato delle cose. La poesia celebra il significante in quanto creatore della realtà. Ma in Zanzotto si tratta di una realtà scomoda. Di una realtà che sbriciola la quotidianità e i suoi aggangi vitali. Si tratta di una realtà in cui traspare incessante un reale insopportabile da sostenere. Come se la realtà svelasse il suo vero volto di pulsione di morte. Come se il significante creatore di senso svelasse senza più mediazioni l'ultima faccia del senso: che l'incontro con il linguaggio è per l'essere parlante il vero trauma, l'unico evento degno di portare il nome di trauma freudiano.

"Idioma, non altro, è ciò che mi attraversa
in persecuzioni e aneliti h j ch ch ch
idioma
è quel gesto ingessato
che accùmula
sere sforbiciate via verso il niente" (14).

Parallelamente dunque alla centralità del significante, avviene nell'opera di Zanzotto un radicale decentramento del punto focale del proprio io: l'io non è più centrale. Si ha anzi un'"estromissione - cito Stefano Agosti - dell'io dal campo dell'esperienza. Alle spalle dell'io si situerà, senza più, il linguaggio, ma non nella sua dimensione (saussuriana) di sistema sovrapposto al mondo, bensì nella sua oscura e, al limite, minacciosa densità materiale di 'significante'. E' il significante, non l'io, che pone le istanze e le modalità di articolazione del vissuto (…). Al limite, si potrà dire che il significante, in quanto non collegato a un senso che gli preesista, non fa altro che elaborare un vuoto di senso che è il vuoto in cui si risolve la realtà: une béance" (15).

La lingua acquista per il poeta una duplice valenza: da un lato è la lingua come codice, come luogo del rimosso, del sapere e della storia, luogo dell'etica, griglia che articola la realtà, ma d'altra parte è la lingua come il luogo stesso della mancanza-a- essere del soggetto, il luogo di una presenza strutturalmente perduta, di un mancamento che è mancamento radicale e incurabile, un mancameto che si irraggia in modo radiale su tutto il campo del vissuto.

"Mi sono messo di mezzo a questo movimento-mancamento radiale
ahi il primo brivido del salire, del capire,
partono in ordine, sfidano: ecco tutto" (16).

La disgregazione della lingua va, dunque, in Zanzotto, di pari passo con la disgregazione della realtà, e la disgregazione dell'io. Non si tratta di un'espediente letterario, di una finzione retorica, si tratta invece di una posizione soggettiva che il poeta caratterizza con il termine di terrore: "il terrore di ogni giorno", com'egli scrive. Qui la sua scrittura "si inscrive in una duplice istanza: di fuga dal terrore, e di ricettacolo ove elaborare un 'principio di resistenza'" (17), che è poi il titolo di una sua poesia: "Retorica su: lo sbandamento, il principio 'resistenza'" (18).

La sua poesia è una constatazione della disgregazione dell'io sotto i colpi del significante. Ma il poeta non ritrova modo di ricompattarsi, di far fronte allo sfacelo, di porre fine al terrore. Il poeta non ha a sua disposizione, per esempio, quell'artificio che è un Ego joyciano.

Per questo la sua poesia si fa allora appello, lettera, sebbene forse mai veramente spedita. Per questo ritroviamo costantemente nell'uomo-poeta un anelito verso l'uomo-psicoanalista. "Ricordo — dice Zanzotto — un numero de La Psychanalse scoperto su un tavolo e sfogliato con ansia". E poi, com'egli dice, gli attesissimi Ecrits "che mi provocarono veri traumi" (19).

Il ricorso a Lacan è veramente un "Vocativo", che è sì il titolo di una raccolta del poeta contemporanea del primo insegnamento di Lacan, ma è anche "un titolo — come scrive Zanzotto - senza dubbio riconducibile a qualcosa di lacaniano" (20).

L'uomo-poeta si volge verso l'uomo-psicoanalista. Vi si volge in modo ambivalente. Poiché, scrive nel testo "Nei paraggi di Lacan": "Io la sapevo troppo lunga su un certo terreno, su una immediata forza di malignità in atto, di derealizzazione in atto (…) per poter accettare tranquillamente le pur straordinarie sortite di Lacan sul vuoto, i suoi passaggi a volo su quelli che per me restavano precipizi da girone infernale" (21). Eppure nonostante la diffidenza verso "chi cammina tra i mostri con relativa sicurezza" forse "perché è lui stesso un mostro, una neoformazione" (22), eppure l'uomo-psicoanalista acquista per l'uomo-poeta un valore tutto particolare poiché "nel discorso lacaniano al di là della sua protensione a distruggersi lungo il suo procedere" vi si riscopre "un'incredibile voglia di connessione e di sopravvivenza, uno sprizzar su di frammenti di verità precise come frecce che fanno centro" (23).

"Se Freud era l'autocomprendersi della nevrosi, Lacan era l'autocomprendersi della psicosi: se il primo, più che guarire, aveva giustificato o verbalizzato 'la' (sua) nevrosi, il secondo aveva addirittura glorificato 'la' (sua) psicosi, praticamente insediando un mancamento al posto dell'ego" (24).

Questo passo di "Nei paraggi di Lacan" mi invita a concludere facendo un rapido parallelismo tra Zanzotto e Joyce.

L'ego di cui Zanzotto parla qui per lui è un sogno. Il suo io è andato in frantumi e vi rimane solo un mancamento, solo un buco, laddove per Joyce, al contrario, è l'ego a costituire l'anello che lega insieme le sparse membra del corpo della lingua.

Che sia l'incontro dell'essere umano con il significante a fare trauma è quello che ricorda J.A. Miller nel Seminario su Joyce pubblicato nel n. 23 de La Psicoanalisi: "Joyce ci mostra che il trauma è quello dell'incidenza della lingua sull'essere parlante. Joyce ci mostra in modo puro l'essenza del trauma, che è il trauma della lingua" (25). E, possiamo dire, come Joyce, anche Zanzotto mostra questa faccia traumatica dell'incidenza della lingua nel corpo dell'essere parlante.

Ma diversamente da Joyce, Zanzotto non riesce a prendere distanza da questo trauma, non riesce a fruttarlo come fa Joyce, non lo "sintraumatizza", per usare il termine di Lacan. Non riesce a farne sinthòmo vivibile. Joyce stritola la lingua. Zanzotto ne è stritolato. Per i due l'incidenza della lingua è il trauma, personale anche se generale. Ma uno ne esce da vincitore e l'altro da vinto. Certo, l'essenza del trauma è per ogni l'uomo l'incidenza della lingua. Ogni uomo è dunque stritolato rispetto alla lingua. Anche se generalmente l'uomo "normale" non lo sa e non lo vuol sapere. E solo all'analizzante, se avrà fortuna, può svelarsi l'arcano del suo stritolamento. Ora, l'arcano è senza veli in Joyce e Zanzotto. Ma i due offrono una soluzione diversa: Joyce usa il suo Ego. Ego che fa difetto a Zanzotto.

Per questo Joyce, che usa il suo Ego come quel sinthòmo che è il suo punto di forza e di sufficienza, non è alla ricerca di nessun Altro e di nessuna verità. Al contrario in Zanzotto, nudo nel suo mancamento, traspare un'assoluta necessità della verità (verità storica ed etica), traspare un'assoluta necessità di un Altro a cui aggrapparsi in un "Vocativo" permanente sebbene costantemente arenato. Il suo mancamento non può sostenersi senza l'Altro e ancor meno sulla mancanza dell'Altro.

E assistiamo così a un tentativo costante da parte del poeta d'inventarsi contro il rapporto della lingua che rende folli vari modi per ristabilire un Altro (dell'etica e della storia, se non della letteratura) a lui necessario, e costantementevediamo il poeta lottare per tentare di legare insieme l'insieme sparpagliato: che si tratti di una poesia che sia soprattutto scrittura, che si tratti di una poesia che usi una lingua non-lingua com'è il dialetto, e che si tenti l'avventura di un al di là dell'idioma — ricordo il titolo del suo "Alto, altro linguaggio, fuori idioma?" (26) — per approdare a un tentativo di nodo tramite la sua poesie.

"Ma che m'interessa ormai degli idiomi?
Ma sì, invece, di qualche
piccola poesia, che non vorrebbe saperne
ma pur vive e muore in essi — di ciò m'interessa
e del foglio di carta (…)" (27).

Vorrei terminare con le parole con cui Zanzotto, uomo martoriato dall'incontro con la lingua, conclude il suo testo su Lacan: "Credo che convenga comunque sperare nella sua - di Lacan - non-speranza" (28).



(1) S. Agosti, "Introduzione alla poesia di Andrea Zanzotto", in A: Zanzotto, Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993, p. 30.

(2) J. Lacan, Le Séminaire V, Les formations de l'inconscient (1957-1958), Paris, Seuil, 1998, p. 64.

(3) Ibidem, p. 122.

(4) Ibidem, p. 116.

(5) Cf. Ornicar ? digital, n. 13.

(6) J. Lacan, op. cit., p. 117.

(7) Einaudi, Torino 1966, p. 585.

(8) S. Agosti, op. cit., p. 12.

(9) Ibidem, p. 11.

(10) Ibidem, p. 18.

(11) A. Zanzotto, "La perfezione della neve", Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993, p. 153.

(12) J. Lacan, op. cit., p. 55.

(13) A. Zanzotto, "Prima persona", op. cit., p. 105.

(14) A. Zanzotto, "Alto, altro idioma, fuori idioma?", op. cit., p. 303.

(15) S. Agosti, op. cit., p. 19.

(16) A. Zanzotto, "La perfezione della neve", op. cit., p. 152.

(17) S. Agosti, op. cit., p. 13.

(18) A. Zanzotto, op. cit., p. 171.

(19) A. Zanzotto, "Nei paraggi di Lacan", Aure e disincanti nel novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, p. 171-2.

(20) Ibidem, p. 171.

(21) Ibidem, p. 172.

(22) Ibidem.

(23) Ibidem.

(24) Ibidem, p. 174.

(25) J.A. Miller, "Lacan con Joyce. Seminario di Barcellona II", La Psicoanalisi, n. 23, Roma, Astrolabio, 1998, p. 44.

(26) A. Zanzotto, op. cit., p. 303.

(27) Ibidem, p. 304.

(28) A. Zanzotto, Aure, op. cit., p. 176.

(*) il file si trova in Archivio sul sito www.lacanian.net/Ornicar%20online/.../ornicar/.../dcc0112.htm


lunedì 10 ottobre 2011

In occasione del trentennale della morte di Jacques Lacan, La Biblioteca del campo freudiano in collaborazione con la Biblioteca nazionale centrale di Roma presenta Il seminario. Libro XX. Ancora di Jacques Lacan (Einaudi 2011).