blog lavori in corso

lunedì 24 ottobre 2011

Scomparsa di Andrea Zanzotto

La recente scomparsa di Andrea Zanzotto, ci fa ritrovare il grande poeta. Sul quotidiano L'Unità del 18 ottobre 2011 leggiamo: «Che cosa si capisce della vita dopo 90 anni? Niente». Così il poeta aveva risposto in un'intervista al Tg3 del Veneto il 10 ottobre scorso, giorno del 90imo compleanno, che aveva trascorso nella sua casa di Pieve di Soligo, sulle colline trevigiane. «Cosa vuole che si capisca in 90 anni? - aveva aggiunto - Per dire parole che valgano la pena bisognerebbe almeno averne 900 di anni...». Proponiamo qui un articolo di Antonio Di Ciaccia dedicato al grande poeta, pubblicato da Ornicar Digital *. (Laura Rizzo)


Andrea Zanzotto o il "mancamento" radiale.

Antonio Di Ciaccia

Il "mancamento" radiale è la definizione che Zanzotto dà della propria esperienza poetica "che vede il Soggetto — cito il critico Stefano Agosti — collocato nel punto centrale di una sfasatura che coinvolge (e sconvolge) l'assetto del mondo" (1). Punto drammatico ma straordinariamente fecondo.

Perché Zanzotto? Occupandomi quest'anno del Seminario V di Lacan Les formations de l'inconscient, mi sono più volte domandato quale autore italiano avrebbe potuto illustrare quanto Lacan avanza nei primi sette capitoli del suo Seminario. Come sapete, Lacan fa riferimento a diversi autori e ad autori di diversa collocazione nel campo letterario con un intento preciso: quello di rendere conto della struttura linguistica dell'inconscio freudiano. Le formazioni dell'inconscio si situano esattamente dove si colloca il Witz, il motto di spirito. Come si noterà Lacan non fa riferimento, almeno in questi capitoli del Seminario V, ad autori italiani.

Devo ad alcuni colleghi — che ringrazio — la segnalazione di diversi autori, tra i quali ho scelto di interessarmi più particolarmente all'opera di Andrea Zanzotto. Forse perché il suo nome mi evocava l'unico testo in prosa — almeno a mia conoscenza — in cui Zanzotto parla di Lacan. Forse anche perché ritrovavo in Zanzotto le tracce di una duplice problematica che mi aveva colpito nella lettura dei primi sette capitoli del Seminario Les formations de l'inconscient.

In effetti, in Lacan abbiamo in questi capitoli del Seminario V una prima problematica che è imperneata intorno alla dimostrazione che l'inconscio freudiano è strutturato come un linguaggio. Tale dimostrazione Lacan la fa a uso di Freud. La riprende da Freud, la chiarifica, la illustra e la rilancia. E la rilancia nel mostrare nella catena significante l'articolazione tra la metafora e la metonimia. "(…) la possibilità stessa del gioco metaforico si fonda sull'esistenza da qualcosa da sostituire. Quello che è alla base è la catena significante, in quanto principio di combinazione e luogo della metonimia" (2).

Poi però abbiamo in questi primi capitoli del Seminario V una seconda problematica, direi più tipicamente lacaniana e che riguarda la questione del soggetto e del suo Altro. Lacan precisa, riportandolo sul grafo, la posizione dell'io. Ma l'io non è il soggetto. E mentre Lacan precisa sul grafo il posto dell'io, posto correlativo al posto dell'oggetto metonimico, il soggetto, il soggetto dell'inconscio, invece Lacan lo situa in tutto il grafo. "Il soggetto — dice — è tutto il sistema, e forse qualcosa che si conclude in questo sistema" (3).

Per quanto riguarda l'Altro, anche qui Lacan lo moltiplica precisando che una cosa è l'altro in quanto simile, altro ancora è l'Altro in quanto è l'istanza che autentifica per esempio il motto di spirito, altro ancora è l'Altro come reale per poi arrivare a questa affermazione: "Eccoci dunque in posizione di dire che, lungi che il soggetto di fronte a noi debba essere un vivente reale, questo Altro è essenzialmente un luogo simbolico" (4). E Lacan nella pagina successiva qualifica questo Altro come "sopra-individuale", come "avente un carattere singolarmente immortale" e soprattutto — come sottolinea J.A. Miller nel suo Seminario tenuto a Barcellona su Les formations de l'inconscient (5) — come avente "un carattere che possiamo chiamare astratto" (6).

Queste due problematiche corrispondono dunque a due preoccupazioni di Lacan, la prima circa la dimostrazione della struttura linguistica dell'inconscio freudiano e la seconda circa la posizione del soggetto, del soggetto dell'inconscio, e del grande Altro.

Ora, che cosa troviamo nel percorso poetico di Andrea Zanzotto? Ritroviamo certo quello che Michel David, nel suo volume La psicoanalisi nella cultura italiana (7), afferma essere una certa corrispondenza tra l'opera di Zanzotto e l'insegnamento di Lacan: era come se nel poeta Zanzotto si fosse sviluppato un inconsapevole lacanismo. Da parte sua anche il critico Stefano Agosti constata nell'opera zanzottiana quelle che chiama "sintomatiche quanto straordinarie coincidenze e magari anticipazioni" (8) rispetto all'insegnamento di Lacan.

Ma più particolarmente ritroviamo una certa corrispondenza con queste due problematiche, una che riguarda l'evoluzione del percorso poetico di Zanzotto e l'altra che riguarda la propria soggettività e la questione dell'Altro, anche se la seconda — quella che concerne il soggetto e l'Altro — resta in Zanzotto senza soluzione, resta come la sua personale angosciante problematica soggettiva.

Stefano Agosti situa l'irrimediabile incrinatura del suolo su cui si basa la stratificazione letteraria di Zanzotto portando il poeta a questa disgregazione della realtà e dell'io, rispetto a due fatti, riconducibili, a mio avviso, al secondo. Il primo fatto è la nozione di arbitrarietà del segno linguistico postulata da de Saussure, e il secondo fatto è il concetto di significante introdotto da Lacan nella pratica psicoanalitica (9).

In un primo tempo del percorso poetico di Zanzotto la sua ricerca era orientata verso un tentativo di reperire dei significati autentici da rinvenire all'interno dei segni. Ma a un certo punto — esattamente con la raccolta "La Beltà" — cito Agosti — "il rapporto significante-significato si rompe. Il significante non è più collegato a un significato, o a molteplici significati possibili, ma si istituisce esso stesso come depositario e produttore di senso" (10).

In altri termini, in Zanzotto abbiamo un percorso poetico che procede tramite un progressivo distacco dal senso, una poesia orientata non più dalla relazione significante-significato, ma una poesia che si situa in diretta relazione con il significante, una poesia che è sempre più nettamente orientata verso un'utilizzazione della lingua in cui domina l'uso dello scivolamento metonimico.

"E poi astrazioni astrificazioni formulazione d'astri
assideramento, attraverso sidera et coelos
assideramenti assimilazioni —" (11).

E' questo sempre più generalizzato uso della metonimia che sconvolge il lettore. Ma lo sconvolge non solo perché sembra mancargli una pur qualche allusione su cui di solito si fonda la poesia, ma lo sconvolge perché sorge in primo piano ciò che rende poesia la poesia: si tratta della relazione assolutamente essenziale che la poesia ha con il significante. Lacan lo ricorda a proposito della poesia di Mallarmé: una poesia si definisce unicamente "nei suoi rapporti con il significante" (12).

Ora però, quello che è predominante in Zanzotto è il fatto che questo scivolamento metonimico non produce gioco, moto scherzoso, divertimento spassoso, motto di spirito. Poiché in primo piano appare l'effetto che è quello di disgregazione della lingua. Ma la lingua, disgregandosi, correlativamente disgrega la realtà. E più particolarmente disgrega quel punto focale dell'esistenza che è il proprio io. L'io del poeta.

"— Io — in tremiti continui, — io — disperso
e presente: mai giunge
l'ora tua
mai suona il cielo del tuo vero nascere" (13).

La poesia non celebra il significato delle cose. La poesia celebra il significante in quanto creatore della realtà. Ma in Zanzotto si tratta di una realtà scomoda. Di una realtà che sbriciola la quotidianità e i suoi aggangi vitali. Si tratta di una realtà in cui traspare incessante un reale insopportabile da sostenere. Come se la realtà svelasse il suo vero volto di pulsione di morte. Come se il significante creatore di senso svelasse senza più mediazioni l'ultima faccia del senso: che l'incontro con il linguaggio è per l'essere parlante il vero trauma, l'unico evento degno di portare il nome di trauma freudiano.

"Idioma, non altro, è ciò che mi attraversa
in persecuzioni e aneliti h j ch ch ch
idioma
è quel gesto ingessato
che accùmula
sere sforbiciate via verso il niente" (14).

Parallelamente dunque alla centralità del significante, avviene nell'opera di Zanzotto un radicale decentramento del punto focale del proprio io: l'io non è più centrale. Si ha anzi un'"estromissione - cito Stefano Agosti - dell'io dal campo dell'esperienza. Alle spalle dell'io si situerà, senza più, il linguaggio, ma non nella sua dimensione (saussuriana) di sistema sovrapposto al mondo, bensì nella sua oscura e, al limite, minacciosa densità materiale di 'significante'. E' il significante, non l'io, che pone le istanze e le modalità di articolazione del vissuto (…). Al limite, si potrà dire che il significante, in quanto non collegato a un senso che gli preesista, non fa altro che elaborare un vuoto di senso che è il vuoto in cui si risolve la realtà: une béance" (15).

La lingua acquista per il poeta una duplice valenza: da un lato è la lingua come codice, come luogo del rimosso, del sapere e della storia, luogo dell'etica, griglia che articola la realtà, ma d'altra parte è la lingua come il luogo stesso della mancanza-a- essere del soggetto, il luogo di una presenza strutturalmente perduta, di un mancamento che è mancamento radicale e incurabile, un mancameto che si irraggia in modo radiale su tutto il campo del vissuto.

"Mi sono messo di mezzo a questo movimento-mancamento radiale
ahi il primo brivido del salire, del capire,
partono in ordine, sfidano: ecco tutto" (16).

La disgregazione della lingua va, dunque, in Zanzotto, di pari passo con la disgregazione della realtà, e la disgregazione dell'io. Non si tratta di un'espediente letterario, di una finzione retorica, si tratta invece di una posizione soggettiva che il poeta caratterizza con il termine di terrore: "il terrore di ogni giorno", com'egli scrive. Qui la sua scrittura "si inscrive in una duplice istanza: di fuga dal terrore, e di ricettacolo ove elaborare un 'principio di resistenza'" (17), che è poi il titolo di una sua poesia: "Retorica su: lo sbandamento, il principio 'resistenza'" (18).

La sua poesia è una constatazione della disgregazione dell'io sotto i colpi del significante. Ma il poeta non ritrova modo di ricompattarsi, di far fronte allo sfacelo, di porre fine al terrore. Il poeta non ha a sua disposizione, per esempio, quell'artificio che è un Ego joyciano.

Per questo la sua poesia si fa allora appello, lettera, sebbene forse mai veramente spedita. Per questo ritroviamo costantemente nell'uomo-poeta un anelito verso l'uomo-psicoanalista. "Ricordo — dice Zanzotto — un numero de La Psychanalse scoperto su un tavolo e sfogliato con ansia". E poi, com'egli dice, gli attesissimi Ecrits "che mi provocarono veri traumi" (19).

Il ricorso a Lacan è veramente un "Vocativo", che è sì il titolo di una raccolta del poeta contemporanea del primo insegnamento di Lacan, ma è anche "un titolo — come scrive Zanzotto - senza dubbio riconducibile a qualcosa di lacaniano" (20).

L'uomo-poeta si volge verso l'uomo-psicoanalista. Vi si volge in modo ambivalente. Poiché, scrive nel testo "Nei paraggi di Lacan": "Io la sapevo troppo lunga su un certo terreno, su una immediata forza di malignità in atto, di derealizzazione in atto (…) per poter accettare tranquillamente le pur straordinarie sortite di Lacan sul vuoto, i suoi passaggi a volo su quelli che per me restavano precipizi da girone infernale" (21). Eppure nonostante la diffidenza verso "chi cammina tra i mostri con relativa sicurezza" forse "perché è lui stesso un mostro, una neoformazione" (22), eppure l'uomo-psicoanalista acquista per l'uomo-poeta un valore tutto particolare poiché "nel discorso lacaniano al di là della sua protensione a distruggersi lungo il suo procedere" vi si riscopre "un'incredibile voglia di connessione e di sopravvivenza, uno sprizzar su di frammenti di verità precise come frecce che fanno centro" (23).

"Se Freud era l'autocomprendersi della nevrosi, Lacan era l'autocomprendersi della psicosi: se il primo, più che guarire, aveva giustificato o verbalizzato 'la' (sua) nevrosi, il secondo aveva addirittura glorificato 'la' (sua) psicosi, praticamente insediando un mancamento al posto dell'ego" (24).

Questo passo di "Nei paraggi di Lacan" mi invita a concludere facendo un rapido parallelismo tra Zanzotto e Joyce.

L'ego di cui Zanzotto parla qui per lui è un sogno. Il suo io è andato in frantumi e vi rimane solo un mancamento, solo un buco, laddove per Joyce, al contrario, è l'ego a costituire l'anello che lega insieme le sparse membra del corpo della lingua.

Che sia l'incontro dell'essere umano con il significante a fare trauma è quello che ricorda J.A. Miller nel Seminario su Joyce pubblicato nel n. 23 de La Psicoanalisi: "Joyce ci mostra che il trauma è quello dell'incidenza della lingua sull'essere parlante. Joyce ci mostra in modo puro l'essenza del trauma, che è il trauma della lingua" (25). E, possiamo dire, come Joyce, anche Zanzotto mostra questa faccia traumatica dell'incidenza della lingua nel corpo dell'essere parlante.

Ma diversamente da Joyce, Zanzotto non riesce a prendere distanza da questo trauma, non riesce a fruttarlo come fa Joyce, non lo "sintraumatizza", per usare il termine di Lacan. Non riesce a farne sinthòmo vivibile. Joyce stritola la lingua. Zanzotto ne è stritolato. Per i due l'incidenza della lingua è il trauma, personale anche se generale. Ma uno ne esce da vincitore e l'altro da vinto. Certo, l'essenza del trauma è per ogni l'uomo l'incidenza della lingua. Ogni uomo è dunque stritolato rispetto alla lingua. Anche se generalmente l'uomo "normale" non lo sa e non lo vuol sapere. E solo all'analizzante, se avrà fortuna, può svelarsi l'arcano del suo stritolamento. Ora, l'arcano è senza veli in Joyce e Zanzotto. Ma i due offrono una soluzione diversa: Joyce usa il suo Ego. Ego che fa difetto a Zanzotto.

Per questo Joyce, che usa il suo Ego come quel sinthòmo che è il suo punto di forza e di sufficienza, non è alla ricerca di nessun Altro e di nessuna verità. Al contrario in Zanzotto, nudo nel suo mancamento, traspare un'assoluta necessità della verità (verità storica ed etica), traspare un'assoluta necessità di un Altro a cui aggrapparsi in un "Vocativo" permanente sebbene costantemente arenato. Il suo mancamento non può sostenersi senza l'Altro e ancor meno sulla mancanza dell'Altro.

E assistiamo così a un tentativo costante da parte del poeta d'inventarsi contro il rapporto della lingua che rende folli vari modi per ristabilire un Altro (dell'etica e della storia, se non della letteratura) a lui necessario, e costantementevediamo il poeta lottare per tentare di legare insieme l'insieme sparpagliato: che si tratti di una poesia che sia soprattutto scrittura, che si tratti di una poesia che usi una lingua non-lingua com'è il dialetto, e che si tenti l'avventura di un al di là dell'idioma — ricordo il titolo del suo "Alto, altro linguaggio, fuori idioma?" (26) — per approdare a un tentativo di nodo tramite la sua poesie.

"Ma che m'interessa ormai degli idiomi?
Ma sì, invece, di qualche
piccola poesia, che non vorrebbe saperne
ma pur vive e muore in essi — di ciò m'interessa
e del foglio di carta (…)" (27).

Vorrei terminare con le parole con cui Zanzotto, uomo martoriato dall'incontro con la lingua, conclude il suo testo su Lacan: "Credo che convenga comunque sperare nella sua - di Lacan - non-speranza" (28).



(1) S. Agosti, "Introduzione alla poesia di Andrea Zanzotto", in A: Zanzotto, Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993, p. 30.

(2) J. Lacan, Le Séminaire V, Les formations de l'inconscient (1957-1958), Paris, Seuil, 1998, p. 64.

(3) Ibidem, p. 122.

(4) Ibidem, p. 116.

(5) Cf. Ornicar ? digital, n. 13.

(6) J. Lacan, op. cit., p. 117.

(7) Einaudi, Torino 1966, p. 585.

(8) S. Agosti, op. cit., p. 12.

(9) Ibidem, p. 11.

(10) Ibidem, p. 18.

(11) A. Zanzotto, "La perfezione della neve", Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993, p. 153.

(12) J. Lacan, op. cit., p. 55.

(13) A. Zanzotto, "Prima persona", op. cit., p. 105.

(14) A. Zanzotto, "Alto, altro idioma, fuori idioma?", op. cit., p. 303.

(15) S. Agosti, op. cit., p. 19.

(16) A. Zanzotto, "La perfezione della neve", op. cit., p. 152.

(17) S. Agosti, op. cit., p. 13.

(18) A. Zanzotto, op. cit., p. 171.

(19) A. Zanzotto, "Nei paraggi di Lacan", Aure e disincanti nel novecento letterario, Milano, Mondadori, 1994, p. 171-2.

(20) Ibidem, p. 171.

(21) Ibidem, p. 172.

(22) Ibidem.

(23) Ibidem.

(24) Ibidem, p. 174.

(25) J.A. Miller, "Lacan con Joyce. Seminario di Barcellona II", La Psicoanalisi, n. 23, Roma, Astrolabio, 1998, p. 44.

(26) A. Zanzotto, op. cit., p. 303.

(27) Ibidem, p. 304.

(28) A. Zanzotto, Aure, op. cit., p. 176.

(*) il file si trova in Archivio sul sito www.lacanian.net/Ornicar%20online/.../ornicar/.../dcc0112.htm